UPASTHĀTĀ

Il Ruolo del Terapista nella Medicina Ayurvedica

chakra

 

Essere un Buon Operatore? Impara strumenti e Competenze

L’āyurveda ha una storia millenaria e le sue radici si perdono in epoche remote il cui ordito è praticamente impossibile ricostruire. Questa medicina storica è un patrimonio incalcolabile di osservazioni, catalogazioni, esperienze che è arrivato a noi arricchito nei secoli, ma fedele allo spirito iniziale e ai contenuti che ne costituiscono la base: uno di questi cardini, che può apparire a una prima osservazione banale è il Catuṣpāda. Catuṣpāda è un termine sanscrito che possiamo tradurre con “ciò che è diviso in quattro parti” e definisce i quattro pāda, ovvero i quattro pilastri ritenuti sostanziali per la realizzazione di una terapia:

  • il medico,
  • il terapista,
  • il medicamento e…
  • il paziente!

Possiamo ben immaginare che il paziente e il medico siano presenti, non facciamo fatica a pensare che dopo una diagnosi siano prescritti medicinali, ma fermi restando alla nostra esperienza occidentale abbiamo invece problemi a immaginare tout de suite una figura, quella del terapista, che in India invece affianca sempre il medico ayurvedico.

Desidero qui, in poche righe, parlare di questa figura, del terapista, ovvero dell’ upasthātā e degli attributi e capacità che lo qualificano. Il termine sanscrito upasthātā indica colui che sta vicino, colui che è prossimo: non si intende qui solo una vicinanza fisica e professionale, ma anche e soprattutto una vicinanza umana, nel senso più nobile del termine.

Al terapista ayurvedico (di cui si parla esplicitamente nella Caraka Saṃhitā, nella Suśruta Saṃhitā e nell’Aṣṭāṅga Hṛdaya e precisamente in CS sūtra 9,5-10, SS sūtra 34,15-24 e A Hṛ sūtra 1,27-29) in India vengono richieste particolari doti. Deve essere:

  • Anurakta (devoto, votato) ovvero deve saper sviluppare e coltivare un rapporto con le persone di grande sensibilità, attenzione e partecipazione,
  • Śuci, (puro) ovvero deve mantenere la purezza del corpo, della mente e dell’animo. Infatti prima di imparare a prendersi cura delle persone il terapista in India (in realtà ognuno di noi dovrebbe farlo) deve imparare a curare la propria persona, deve mantenersi in buona salute con buone regole di vita quotidiana,
  • Buddhimān (intelligente) ovvero deve sviluppare la propria buddhi, l’intelletto superiore, deve poter ragionare con la mente e la coscienza,
  • Dakṣa (brillante, svelto nel capire, competente) ovvero deve imparare a sviluppare la propria capacità di osservazione critica e a usare con efficienza la propria formazione culturale e gli strumenti che questa gli offre.

Realizzare questi quattro punti è molto complesso, ma è ancora più difficile arrivare a sentire fino in fondo queste qualità, continuare a perfezionarle e soprattutto completarle con quei particolari che sono ovvi in India ma che in occidente diventano al contrario quasi irrealizzabili se non si ha la fortuna di incontrare chi riesce a guidarci in questa direzione. Questi particolari sono quelli che appartengono alla coscienza di un individuo perché appartenente a un popolo specifico che vive immerso nella sua cultura e con le sue tradizioni.

La formazione per le discipline tradizionali, in India, può seguire due percorsi diversi: il primo è quello consueto che richiede un lungo periodo di formazione e osservazione accanto a terapisti già formati o vicino a medici e terapisti che lavorano insieme, il secondo è quello ormai sempre più diffuso, che possiamo definire accademico e che prevede un percorso in scuole strutturate come in occidente con insegnanti, esami e diploma finale…

Lo studente – il futuro upasthātā nel nostro caso – può perciò scegliere in realtà tre strade diverse:

  • può seguire la tradizione e imparare con l’osservazione,
  • può frequentare scuole specializzate con un iter formativo analogo a quello delle nostre scuole tecniche,
  • può rendere complementari i due percorsi e ottenere il migliore dei risultati!

Chi studia per diventare terapista ayurvedico in Europa (e così nel resto del mondo fuori dalla grande terra di Bhārata) fa percorsi necessariamente più brevi e non ha l’opportunità di assorbire la cultura in cui l’āyurveda nasce. Inoltre in India, terminati gli studi, è normale svolgere il compito di terapista con un medico ayurvedico che è in grado di raffinare il terapista, mentre in occidente la complementarietà del lavoro di medico e terapista è praticamente un’utopia.

Un buon terapista ayurvedico oltre a possedere la capacità di usare tutti gli strumenti che i suoi studi gli offrono, oltre a essere il migliore osservatore possibile, oltre a sapere usare le proprie mani con una sensibilità da artista, oltre a possedere un profondo rispetto per ciò che compie e per chi incontra deve conoscere perciò “tutto quello che viene prima” ovvero quello che l’indiano medio respira durante gli anni della sua gioventù e che gli permettono di essere un elemento della società in cui vive.

Un buon terapista deve saper creare le migliori condizioni in cui operare (scelta e cura degli spazi e degli strumenti), quali iniziative devono essere eseguite prima e dopo il proprio lavoro (da quelle fondamentali come la scelta degli olii a quelle più raffinate come la realizzazione del migliore ambiente per accogliere), quali abitudini personali seguire per mantenersi in perfetta forma fisica e mentale (pratiche di rigenerazione come āsana o prāṇāyāma), pescando dalla migliore tradizione indiana.

Le conquiste fatte a seguito dello studio o dell’esperienza vanno interiorizzate: il compito più arduo è trasformare la pratica in un momento non solo di trasformazione fisica, ma anche emotiva e scoprire senza fretta, impiegando il tempo necessario, tutti quei particolari dati per scontati che sono invece la ricchezza della tradizione dell’autentico upasthātā: la metamorfosi di uno “spazio” in un “luogo”, della “gente che si incrocia” in “persone che si incontrano”, degli “oggetti silenziosi che si usano” in “simboli espressivi che parlano”, del “lavoro ripetitivo” in “dedizione cosciente al proprio compito”.

Siamo di fronte a un’opportunità di continuo sviluppo personale e professionale in cui anche la scelta e l’orientamento del droni (il tavolo di legno su cui il terapista lavora) è specchio della filosofia e della storia religiosa di un popolo, riflesso di una ricerca di armonia a tutti i livelli. Al terapista viene inoltre richiesto di saper trasformare la persona di cui si prende cura in un elemento attivo e partecipe del percorso per il benessere: il terapista deve saper chiedere alla persona di cui si occupa di porre attenzione alla dieta, osservare i cambiamenti del corpo affinché tutto diventi parte di un’indagine per trovare il migliore degli equilibri. E’ chiaro allora che i requisiti richiesti al terapista sono ben più numerosi dei quattro introdotti che sono la conditio sine qua non!

Oportet studuisse: bisogna aver studiato! Vorrei finire ricordando questo proverbio che recitava il mio primo insegnante di āyurveda, dottore in medicina e in lettere e filosofia a indirizzo indologia (quindi quanto di meglio potevo trovare…) che ha cercato di insegnare a tutti noi che partecipavamo alle sue lezioni l’importanza di aver studiato per poter crescere e imparare sempre di più.

Aver studiato è ciò che deve aver fatto l’upasthātā perché prima di poter conoscere un’arte, una professione, bisogna creare l’humus culturale e pratico su cui seminare, bisogna scoprire “tutto quello che sta dietro” e che costituisce la matrice della materia cui ci si dedica.

 

Dott. Massimiliano Mayr

 

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